Luciano Deriu
4 aprile 2016
L'opinione di Luciano Deriu
Un referendum sulla rotta del petrolio
Io voto SI al referendum di aprile. E forse è utile, in una questione così tecnica, semplificare e vedere chiaro che cosa vado a votare. Fino al 2015 in Italia le concessioni per estrarre idrocarburi potevano durare fino a 50 anni. La legge di stabilità 2016 stabilisce invece che la concessione può durare per tutta la “vita utile” del giacimento. Il che significa che la società concessionaria può mantenere l'impianto fino a che, a suo giudizio, riterrà che vi sia ancora gas o petrolio e non smobilitare mai. Votare SI significa abrogare la correzione e tornare alla durata di 50 anni di concessione. Tutto qui. Dunque, anche se vince il SI, il giacimento non chiude, può continuare l’attività ancora (mediamente a seconda dell’inizio attività) per trenta anni. Il solo argomento referendario non porta alcuna rivoluzione. Ma intanto, anche se il referendum non raggiungesse il quorum, il movimento anti trivelle in parte ha già vinto perché ha ottenuto lo spostamento dei pozzi a mare oltre le 12 miglia. Soprattutto, comunque vada, ha ormai assunto la dimensione di una battaglia culturale per una scelta energetica più pulita.
Dopo che il petrolio è sceso di prezzo, estrarlo in Italia non è conveniente, è faticoso, si deve trivellare fino a 4 kilometri in profondità, e la produzione, se si esclude Viggiano in Basilicata, è modesta. La qualità del petrolio è ancora più modesta; è sporca e si utilizza prevalentemente per bitumi. Si ripete un po’ la storia del carbone sardo troppo ricco di zolfo per essere competitivo, ma tenuto in piedi con agevolazioni pubbliche. Alle compagnie conviene mantenere il giacimento grazie alle franchigie che ci sono in Italia. dove le società petrolifere non pagano niente se producono meno di 50 mila tonnellate in mare. Se le superano pagano un misero 7 per cento che si riduce spesso al 5 contro il 50 che si paga in Inghilterra e fino all’80 in Russia o in Norvegia. Le royalties vanno alle regioni e ai comuni interessati. Smantellare, bonificare i terreni, costa di più, meglio continuare a produrre anche poco, possibilmente sotto la soglia della franchigia. Il petrolio estratto non rimane in Italia se non in minima parte. I concessionari sono poi quasi tutti stranieri, Total e Shell, in prima linea, e vendono all’estero a prezzo di mercato. E anche Eni si comporta come un privato e vende a chi paga di più.
La vittoria del referendum farebbe perdere molti posti di lavoro? I dati che girano non sono attendibili. Ma si può vedere che su alcune piattaforme non c’è nessuno. Vengono manovrate in remoto. Nell’impianto più grande, quello di Viggiano ci sono 280 persone. Le compagnie straniere si portano i tecnici dall’estero. Tutti gli addetti in Italia, compreso l’indotto sono circa 3.000. Oggi però, oltre alle trivelle, c’è nel referendum la domanda di una scelta energetica. La domanda di una strategia per iniziare seriamente a ridurre il consumo di quell’idrocarburo che percepiamo come “cattivo” ma indispensabile. Il petrolio inquina aria e mare, è causa di guerre e garantisce lo strapotere delle peggiori dittature. L’estrazione in mare produce effetti gravi per l’ecosistema marino perché effettuato con la tecnica dell'airgun (esplosioni sottomarine di aria compressa). Le onde sonore di grande potenza non sono una carezza per la vita di molte specie marine. Ma l’inquinamento più grave, senza parlare di un possibile catastrofico incidente in un mare, riguarda tutto il settore della movimentazione. In Basilicata, dove gli impianti sono in terraferma, l’Eni ha costruito un oleodotto di 150 kilometri che dai Pozzi di Viggiano porta al porto di Taranto (un suo prolungamento fino a Tempa Rossa vicino a Potenza ha scatenato lo scandalo che ha coinvolto il Ministro Guidi).
E sono previsti ancora nuovi serbatoi di stoccaggio per migliaia di tonnellate nel porto di Taranto dove ce ne sono già 132. Infine per portare via il greggio da Taranto occorrono molte petroliere. Solo la Total per la sua produzione prevede 90 petroliere all’anno.
L’alternativa c’è. Le energie rinnovabili sono ormai mature. Sole, vento, biogas, geotermia, risparmio energetico, sono il futuro pulito del mondo. Che non ci siano altre strade, ci crede perfino l’ENI, ma forse ha bisogno di una ruvida spinta popolare che può venire proprio dal referendum. Ci sarà un periodo di transizione in cui si potrà utilizzare il gas metano, assai meno inquinante del petrolio. Ma già ora le rinnovabili in Italia producono il 40 per cento dell’energia elettrica. Ma, attenzione, non dimostreremo coerenza, se votando SI al referendum, anche noi, nel nostro privato quotidiano non cominciamo a ridurre l’utilizzo di idrocarburi, per esempio col risparmio energetico, abbassando il riscaldamento (a casa in maglietta a maniche corte in inverno non è più possibile) o riducendo l’uso dell’automobile e utilizzando mezzi alternativi.
*Per Direttivo Legambiente Sardegna
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