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Pasquale Chessa 1 giugno 2011
L'opinione di Pasquale Chessa
Da Cagliari, rivoluzione Italia
<i>Da Cagliari, rivoluzione Italia</i>

Che non stesse li a «pettinare le bambole» tutti l'hanno capito quando il segretario del partito democratico, con la solita faccia da funerale triste, si è presentato subito di fronte alle telecamere per chiedere le immediate dimissioni del presidente del consiglio. In quel momento Silvio Berlusconi, rifugiato in Romania, deve essersi sentito come Hitler alla notizia della vittoria di Jesse Owens nel salto in lungo alle Olimpiadi nel 1936, quando abbandonò lo stadio di Berlino per non vedere un ariano battuto da un atleta nero nero. Perciò, l’anatema di Bucarest, «i napoletani se ne pentiranno e i milanesi preghino il buon dio», tradisce come un lapsus freudiano, il profondo spaesamento in cui si agita l’animo di Berlsuconi. Per il campione carismatico della telecrazia, prenderle così sonoramente dal «Fantozzi della politica italiana», uno incapace a bucare lo schermo, deve essere psichicamente insopportabile.

Il sintomo è grave. È come un santo che si accorga di non saper più fare i miracoli! Si dice e si dirà: è già successo altre volte. È vero. Ma tutte le altre volte Berlusconi aveva sempre una scusa: non mi hanno fatto governare. Adesso ci sarebbe la crisi internazionale. Ma non ha funzionato. In una puntata elettorale di Ballarò, proprio Bersani, sempre con l’aria di smollare un’altra delle sue terrificanti metafore, ha proposto di chiedere a Berlusconi e Tremonti di conoscere il momento da cui far data perché la crisi italiana sia da attribuire finalmente alla politica del centrodestra. Nessuno ha colto il valore profetico della battuta. Gli elettori, si.

Quel «consenso senza fiducia» di cui ha parlato Ilvo Diamanti non basta più a Berlusconi. La tensione verso una modernizzazione conservatrice del paese, diciamo liberista per essere più gentili, si è arenata da tempo in una pratica costante di non governo. È infatti l’incapacita di guidare con fermezza la crisi che stiamo ancora attraversando il vero male oscuro del centrodestra. Per Berlusconi è come la guerra persa per Mussolini! La pretesa di imporre un valore politico al voto comunale ha aperto la strada ad una constatazione empirica che non potrà non trovare conforto, per la sua evidenza, negli studi sui flussi elettorali della Fondazione Cattaneo.

«Il teorema dell’elettore mediano» fondato sull’assioma che per vincere le elezioni bisogna convergere progressivamente verso il centro ideologico dell’opinione pubblica, si è rivelato sbagliato o almeno inadeguato per capire cosa sia successo a Milano, a Napoli e soprattutto a Cagliari. Anzi, sarà proprio l’analisi del voto di Cagliari a rivelarsi l’indicatore più adeguato a misurare la rivoluzine elettorale in atto. C’è una domanda chiave politicamente ineludibile: chi ha fatto vincere Massimo Zedda? La sua «collocazione spaziale» come dicono i politologi sembrava tanto eccentrica da oscurare qualsiasi previsione di successo. Invece un comportamento elettorale, che sarà tutto da studiare, ha portato anche a Cagliari un voto libero da prigionie ideologiche, slegato da orientamenti di parte, sciolto da obblighi di classe. Ed è proprio su questo terreno che ha vinto Bersani. Ma davvero, si può dire che Bersani abbia vinto?

Una vulgata infida si sta già diffondendo e da destra si sta insinuando a sinistra: se è accertato che Berlusconi abbia perso, non si può dire che Bersani abbia vinto! Perché non sono stati i candidati del Pd a battere il centrodestra. È vero! Ma vale solo per i ballottaggi. Perchè la sua vittoria il segretario del partito l’aveva già portata a casa con il successo al primo turno di Piero Fassino a Torino e Virginio Merola a Bologna. Siamo tornati al punto di partenza: le primarie come sistema di formazione di una opinione pubblica di centrosinistra. Che un domani potrebbe anche votare candidati di centro. La fine del carisma di Berlusconi segna il punto di non ritorno. Quello italiano, che sembrava un elettorato credulone, ciclicamente esposto al fascino dell’illusione populista, si è scoperto capace di interpretare la politica. Sono tornati gli Apoti (coloro che non se la bevono, secondo la famosa definizione del 1922 di Giuseppe Prezzolini). Con tutti i dubbi sulla storia del passato, è pur sempre un passo avanti rispetto ai nuovi Scilipoti.

*pubblicato su La Nuova Sardegna



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