Sappiamo che lei è un ricercatore impegnato da molti anni nello studio della toponomastica (e della lessicografia) algherese. Che spiegazione dà ai recenti ritrovamenti di Monte Carro?
Risposta. Era nell’aria che prima o poi il “bubbone” del “sacco dell’agro” (anche a seguito di questo intervento) sarebbe scoppiato, in quanto, da diversi anni a questa parte, le aree di maggior pregio archeologico, paesaggistico e ambientale sono state prese di mira dalla speculazione. Prima di entrare nel merito dei ritrovamenti di epoca, quasi esclusivamente, romana è bene chiedersi: Chi ha permesso di devastare un’area di grande interesse archeologico come
Monte Carro? Ci sarà pure qualcuno che, aldilà dei confini comunali, ha firmato le relative licenze? Sappiamo che la magistratura indaga e non solo per Monte Carro; ci auguriamo che i responsabili di tanto scempio siano presto messi in condizioni di non recare altri danni al territorio della comunità cittadina.
Per quanto riguarda il ritrovamento del sito, dove riposa
Corax (e non
Càrbia), sono stati due algheresi: Ferruccio Zarini e chi scrive, a segnalare alla Soprintendenza prima ed ai carabinieri dopo, i danni che l’impresa appaltatrice dei canali di deflusso delle acque piovane stava provocando con una ruspa in località “la Puríssima” nel lontano 1998. A questo punto, come funghi, sono comparsi i “primi della classe”, i quali difficilmente si pongono il problema di percorrere a piedi o a cavallo il vasto ed ancora da scoprire ‘territorio archeologico’ di Alghero. Forse sono gli stessi che, dopo il ritrovamento e lo scavo del “pozzo sacro”, nulla hanno fatto per continuare le ricerche ed impedire la devastazione speculativa, chiamata oggi, eufemisticamente, “urbanizzazione di Monte Carro”. Forse sono le stesse persone o gli stessi enti, o forse no; questo “forse” dovrebbe essere chiarito sul piano della legalità di certe licenze rilasciate con troppa faciloneria su un rilievo collinare oggi irrimediabilmente sfigurato dal cemento...
Ma, ritornando alla scoperta del sito in questione, quindi alla presunta
Càrbia, sicuramente non è avvenuta né ad opera degli storici romani né, tanto meno, ad opera della citata “Soprintendenza per i beni architettonici, il paesaggio, il patrimonio storico-artistico ecc. per le province di Sassari e di Nuoro”. Lo studioso di toponomastica (in questo caso chi scrive) deve vedere e controllare di persona i luoghi che ne hanno ispirato i nomi, per meglio penetrare la ‘ratio’ di colui che, per la prima volta battezzò con la propria lingua, quella determinata emergenza; successivamente il riscontro dovrà avvenire sui documenti archivistici o sui testi antichi. La terra sarda è aspra, pietrosa e difficile da ‘passeggiare’... i tempi dello Spano (padre dell’archeologia sarda), del Nissardi, del Taramelli o del Pallottino ecc., sono molto lontani e lo si deduce anche da questa esperienza e dalla facilità con cui si ipotizzano ‘verità’ ardite e semiserie.
Questi esperti, già da tempo stanno diffondendo l’idea che si tratti della città di Càrbia e non di Corax, come da lei da tempo propugnato: che ci dice in proposito?
Risposta. Qui non si tratta di chi ha torto e di chi ha ragione, ma di buonsenso prima di ogni altra cosa, e di accettare di lasciare prudenzialmente un margine al dubbio. A seguito di un lungo periodo di osservazione dell’area interessata, durante il quale non ho mai trovato (forse per malaugurata coincidenza) alcun esperto della Soprintendenza, né dell’Università di Sassari fare sondaggi sul territorio interessato (ma solo alcuni geometri che facevano rilevamenti sul terreno relativi alla citata canalizzazione delle acque piovane), nel 1999, nella “Revista de l’Alguer” da me diretta, pubblicavo un saggio dal titolo “
Corax, la primigenia «Algarium». Una scoperta archeologica che nasce dalla toponomastica”. Evidentemente a qualcuno non piacque la pubblicazione di quell’articolo, che di fatto ‘bruciava’ in termini giornalistici quanti aspiravano a darne per primi la notizia; da qui, forse, il remare al contrario di certi funzionari che per altri significò supina accettazione di verità rivelate da altri; è tipico dei sardi farsi beccare in testa da coloro i quali, estranei alla nostra cultura, impongono le proprie ragioni con malcelato provincialismo. Sono imposizioni autoritarie che la storia ha sistematicamente smentito.
In quell’articolo, che oggi metto a disposizione dei lettori di Alguer.it in forma di
pdf, con le dovute correzioni, evidenzio una serie di questioni utili per una riflessione seria sulle radici nuragico-romane di quel sito, avvalendomi della ‘dottrina toponimica’ particolarmente legata con le origini latine del toponimo. Altrettanto dovrebbero fare gli archeologi e gli storici romani per quanto di loro competenza: datare i ritrovamenti della cultura materiale, dei corredi funerari, dei resti umani, ecc. in una parola non sconfinare su discipline sulle quali non si ha specifica competenza. Gli aspetti onomastici e più propriamente toponimici appartengono ai linguisti, ai filologi semitici, latini e romanzi, ai toponimisti ‘tout court’ i quali, per la loro naturale prudenza e necessaria preparazione, si avvalgono di tutto ciò che la documentazione storica può offrire, per arrivare ad esplicitare in chiave diacronica, le forme più corrotte giunte a noi, dello stesso nome di luogo. Questi risultati non si ottengono, a mio parere, né con l’arroganza di chi riveste ruoli istituzionali, né con la spocchiosa ‘autorità’ accademica, ma solo ed esclusivamente con la razionalità e rigore scientifici.
Enucleo quindi almeno quattro argomenti per affermare, in modo ragionevole, che il sito scoperto nella vasta area di Monte Carro è
Corax e non
Càrbia.
Primo principio.
La ‘fissità’ dei nomi di luogo.
In base a questo principio universale, nessuno studioso serio si sarebbe mai dovuto avventurare a ipotizzare che lì, a Monte Carro, dove tutto parla romano e non fenicio, vi sia la città di
Càrbia. I nomi di luogo non si spostano a seconda della propria convenienza o degli umori del momento. Questa caratteristica è riscontrabile, giusto per non andare troppo lontano, in tutti i nomi delle emergenze collinari algheresi di retaggio latino e prelatino; vedi il caso di Mont d’Olla, Mont Siseri, Mont de Zirra, Uruni, ecc. Sono trascorsi oltre 2000 anni ed i nomi sono rimasti vincolati a quelle emergenze. Perché? La risposta è semplice: sinché sopravvivono le ragioni economiche della loro sopravvivenza come per esempio la pastorizia o il turismo laddove il toponimo viene rispettato, si assiste alla sua pedissequa perpetuazione, anche se con le già citate alterazioni fonetiche e morfologiche, ma, mai, il nome di luogo ‘emigra’ dall’area in cui fu forgiato! Quando un nome di luogo scompare in quanto desueto o sostituito, il ‘preterito’ (come viene chiamato) lo si ritrova solo attraverso le ricerche archivistiche negli antichi documenti.
Secondo principio.
La prova documentaria.
A partire da Tolomeo, sfruttato per convenienza di parte per situare, come in questo caso, il
Coracodes Portus a Sud di Bosa nei pressi dell’antica Cornus (alcuni studiosi sono ancora rispettabilmente convinti che le coordinate geografiche di Tolomeo [in seguito ‘consacrate dal De Felice, 1964) siano più precise del moderno GPS...), boutade a parte, mi chiedo: come mai il geografo dell’antichità non fa riferimento alla città di
Càrbia o al suo popolo come fa invece per i ‘coracenses’ (abitanti di
Corax) ed altri? Perché non parla di ‘Carbienses’ come invece avrebbe dovuto fare se, ai tempi di Tolomeo, quel popolo fosse già esistito? Sono gli storici moderni a partire dal Fara (
Corographia Sardiniae, versione manoscritta del 1580), passando al Cluverio (
Sardinia antiqua, 1619), al Bodrand (
Novum lexicon Geographicum, 1788), al Keller (
Geographia Antiqua..., 1774), allo Spano (
Strade Antiche della Sardegna nell’epoca cartaginese e romana, città, isole, porti e fiumi, 1856) per arrivare all’Angius (
Dizionario Geografico..., 1853) e al (non sempre attendibile) Della Marmora (
Itinerario dell’Isola di Sardegna, 1868), ecc, giusto per citarne alcuni, che assumendo per veritiere le notizie pubblicate dal Fara e sviluppandole, accertarono che della città fenicia di
Càrbia non fosse rimasta alcuna traccia sul terreno. Per lo Spano,
Càrbia, era voce fenicia composta da KAR+BIA ‘città di piacere’ di cui, secondo l’Autore, esistevano nell’isola altri due insediamenti consimili.
Càrbia, si narra fosse stata attaccata dai Vandali e dai Goti e nel 1002, saccheggiata e incendiata dai mori (potrebbe trattarsi di un falso storico? probabilmente si! non è da escludere che
Càrbia l’avessero già distrutta gli stessi romani). A questo punto però è bene chiedersi: perché la collina in questione è ancora oggi chiamata “lo mont de
Càlvia”? ed il ruscello adiacente, “lo riu de
Càlvia”? È il monte o il ruscello che ha dato il nome alla città o viceversa? Normalmente è l’episodio urbanizzato che determina il derivato, così come
Corax ha sanzionato il gentilizio latino ‘
Coracenses’; come mai mancano i
Carbienses se ai tempi di Tolomeo
Càrbia avesse avuto una qualche importanza? Quindi è per logica molto arduo ipotizzare che dietro il crinale di Monte Carro, ci sia
Càrbia e non
Corax. Se la storiografia sarda dà
Càrbia per distrutta e di origine fenicia, com’è che gli archeologi e storici di Roma attuali insistono nel sostenere che nel grande perimetro di
Monte Carro vi sia sotterrata
Càrbia (fenicia) e non
Corax (romana), quando tutto ciò che è stato riportato alla luce (dalla cultura materiale, a quella funeraria, alla struttura urbana per chiudere con le recenti sepolture) parla solo ed esclusivamente di storia romana e non semitica? Questo è un altro piccolo dettaglio che forse è sfuggito agli storici romani e alla già citata Soprintendenza.
Terzo principio:
La logica difensiva.
Conquistato il territorio, i Romani fecero proprie le logiche difensive dei nuragici. A ben vedere, l’area in questione, piuttosto vasta (non meno di un km2) era protetta a Nord da
Monte Carro, alla cui estremità Est, un “nuraghe mozzo” faceva da sentinella a tre valichi: il primo era situato nella linea a Est del confine il cui passo è ancora oggi chiamato “
Escala de Sant Elmo”, posto tra
Matta’e attu (sul cui crinale esiste un altro piccolo nuraghe di avvistamento) e l’omonimo (per Nissardi) nuraghe di Sant Elmo, chiamato da circa 400 anni di San Pietro, sulla parte terminale del monte di
Càrbia (dove esistettero alcune
domus de janas). Queste torri erano deputate a segnalare col fumo, se di giorno, e col fuoco se di notte, la presenza di un pericolo al nuraghe mozzo di
Monte Carro. Quest’ultimo teneva sotto controllo chi arrivasse dalla costa o dalla gola situata tra la punta Ovest del Monte di
Càrbia col dirimpettaio
Mont Anyés. Questa logica difensiva delle popolazioni nuragiche fu ampiamente studiata dal Nissardi in tutta l’Isola, il quale a proposito del nuraghe mozzo di
Monte Carro ebbe a dire: “Di fatti il nuraghe ora semplice, ora di piccola mole, torreggia in un inaccessibile dirupo di dove l’occhio spazia su di un vasto orizzonte, com’è quello di
Sant’Elmo (leggi San Pietro), che si erge sopra una prominenza rocciosa in territorio di Alghero”. La situazione di
Corax, integrata nel villaggio nuragico è pedissequamente riflessa nella descrizione fattaci dal Nissardi.
Quarto principio:
l’alterazione dei nomi di luogo: da Coracodes portus al “camí del Caragol”.
Partiamo dal
Coracodes portus o porto di
Corax, dove è scritto che tutte le città sorte dopo la conquista romana dell’isola siano state edificate sul mare? Tolta
Turris Libyssonis (l’attuale Porto Torres) e
Kaleris (Cagliari), Bosa era forse ubicata sul mare o a prudenziale distanza da esso? Molto più agevole è accettare che l’attracco alle navi romane che rifornivano
Corax si servissero di un approdo laddove inizia l’attuale via degli Orti, ieri tradizionalmente chiamata “lo camí del
Caragol”, che non aveva un percorso tortuoso, come da altri sostenuto, ma semi circolare che si chiudeva in località “la Puríssima”. Come spiegano gli storici di Roma che la maggior parte dei relitti di navi romane sia stata rilevata nello specchio di mare adiacente alla spiaggia di San Giovanni? Come può essere data da un rispettabile linguista dell’ateneo cagliaritano una spiegazione così banale del “Camí del Caragol” di “sentiero dove abbondano le lumache” o “di sentiero tortuoso simile a quello che percorrono le lumache”? Uno dei principi sui quali si basa la linguistica e la filologia è la prudenza; un dubbio interpretativo, prima di essere sciolto, ha bisogno di lunghi ed estenuanti riscontri documentari. Non c’era bisogno di scomodare il citato linguista (che per rispetto del medesimo e di altri, non nomino), per avere la stessa definizione da un incolto e incolpevole agricoltore algherese. Il catalano
Cargol, versione algherese
Caragol, significa ‘lumaca’. Accettare siffatte scontate interpretazioni cosi dette “all’impronta”, senza un minimo di analisi critica e filologica, non credo sia cosa seria! Qui non si tratta di “caragol” = lumaca, ma dell’alterazione morfologica e infine semantica di
Coracodes (lezione già alterata di
Corax [corvo] +
oras < ora [costa, spiaggia, litorale], Nel tempo avrebbe avuto questa probabile sequenza:
CORACODES > CORACODAS > CORACORAS > CARACORAS > CARAGORAS > CARAGOLAS > CARAGOL a ragione del fatto che il toponimo, passando da una lingua a un’altra o semplicemente entrando in contatto con un altra lingua estranea al latino, ha dovuto necessariamente adattarsi a più strutture linguistiche che comportarono più alterazioni fonetiche per giungere per assonanza, all’attuale di “Caragol”. In pratica si può agevolmente intuire che si tratti di una voce composta da
Corax [corvo] +
oras [costa, lido, golfo], per estensione porto di
Corax o dei ‘corvi marini (o cormorani’). Risparmio al lettore la descrizione fenomenica di tutte le alterazioni fonetiche e morfologiche intervenute nei secoli, dalle quali, tuttavia, mi è stato agevole ricostruire il nome originario del toponimo (vd articolo allegato in pdf). Stiamo parlando di
Corax, di una città romano-nuragica posta a 50 km da Porto Torres, e a 20 da Nure, i cui scavi credo che faranno giustizia alla storia romana del nostro territorio, prima che l’Amministrazione comunale, per quel vezzo provinciale tutto nostro, non assuma un posizione ufficiale in proposito. Per questo ho posto molti ragionevoli interrogativi sul carattere ‘definitivo’ della scoperta, sulla quale c’è ancora molto da discutere.
A tale scopo, appellandomi alla conosciuta sensibilità culturale del Sindaco Tedde, e a quella di tutte le forze democratiche presenti in Consiglio, rivolgo questa pubblica petizione volta a:
a) affidare l’incarico ad alcuni esperti in filologia semitica, latina e romanica di diversa provenienza accademica, per stabilire, mediante lo studio della documentazione esistente, l’origine ed il significato di voci come
Coracodes,
Coracenses di tolemaica memoria ed il moderno ‘
Caragol’, come evoluzione ‘naturale’ delle suddette voci, ed infine di
Càrbia.
b) Istituire una commissione tecnico-politica che censisca lo stato attuale dei luoghi di particolare interesse storico-archeologico, paesaggistico e ambientale (intimamente legati con la lingua catalana di Alghero), la quale, avvalendosi anche della rilevazione aerea, porti a termine e faccia conoscere alla cittadinanza quale territorio erediteranno tra 20 anni, le nuove generazioni di algheresi.
c) Sollecitare il completamento delle indagini, già in corso, della magistratura per accertare la legittimità del rilascio delle licenze d’urbanizzazione in siti di interesse archeologico, paesaggistico e ambientale di tutto il territorio comunale. /
LE IMMAGINI /
LA REVISTA DE L'ALGUER
Nella foto: Rafael Caria, Studioso di Storia della Lingua Catalana