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23 aprile 2022
Takoua Ben Mohamed ad Alghero: l´intervista
«Noi ragazze musulmane non vogliamo essere salvate, il futuro ce lo costruiamo da sole con coraggio e autoironia». Takoua Ben Mohamed, fumettista, graphic journalist, videomaker italo-tunisina, è uno degli ospiti più attesi del festival Dall’altra parte del mare – Sezione ragazzi, dove ha presentato il suo nuovo romanzo a fumetti, “Il mio migliore amico è fascista”,

ALGHERO - «Sono cresciuta vedendo rappresentare la donna musulmana – al cinema, nei romanzi, dai media – tra orientalismo e pregiudizi, in un modo che non mi rappresenta per niente e che non corrisponde a quello che conosco. Allora ho deciso di raccontare con un graphic novel chi sono davvero: una ragazza allegra, divertente, che sa cavarsela da sola e non aspetta che siano gli altri a salvarla o a difenderla». Takoua Ben Mohamed, fumettista, graphic journalist, videomaker italo-tunisina, è uno degli ospiti più attesi del festival Dall’altra parte del mare – Sezione ragazzi, dove ha presentato il suo nuovo romanzo a fumetti, “Il mio migliore amico è fascista”, una storia piena di umorismo e di autoironia che aiuta a riflettere su razzismo, pregiudizi, e sul modo per superarli. Una storia autobiografica, in cui l’autrice, arrivata a Roma dalla Tunisia con la mamma, i fratelli e le sorelle nel 1999 per ricongiungersi al padre rifugiato politico e oppositore del regime di Ben Alì, racconta com’era da ragazzina al primo anno di scuola media.
Takoua, questo è il tuo primo graphic novel scritto per un pubblico adolescente. Com’è cambiato l’approccio letterario e stilistico rispetto ai precedenti?
«Il tratto grafico che adotto nei miei libri cambia in base all’argomento. In “La rivoluzione dei gelsomini” e “Un’altra via per la Cambogia” era molto dettagliato per adattarsi alla storia, per raccontare l’ambiente, la cultura, rispettivamente della Tunisia durante il regime di Ben Alì e della Cambogia. E il tono non era per niente ironico, perché usavo il graphic journalism per parlare di dittatura, torture, traffico di esseri umani. In questo nuovo libro, invece, c’è molta autoironia e il tratto è semplice, per fare arrivare subito il messaggio».
“Il mio migliore amico è fascista” parla del rapporto conflittuale tra te e il tuo compagno di banco alle medie. Leggendo la storia ci si diverte moltissimo, ma non dev’essere stato facile passare tante ore accanto a una persona così diversa da te…
«Diciamo che per costruire un muro tra noi due – che poi era una linea tracciata sul banco con un pennarello indelebile - ci abbiamo messo poco, mentre ad abbatterlo ci sono voluti mesi e mesi. Noi due in realtà eravamo molto simili, al di là delle differenze, eravamo entrambi “ignoranti” nel senso che dicevamo cose di cui non conoscevamo il significato. Quando lui diceva di essere fascista e disegnava svastiche sul banco, in realtà non sapeva cos’erano davvero il nazismo o il fascismo, e lo stesso quando mi dava della talebana e della terrorista. Io stessa non sapevo cosa significavano tutte queste cose.
Come avete fatto ad andare oltre i pregiudizi reciproci? E cosa ti ha lasciato quell’amicizia nata come un’antipatia fortissima?
«Tutti e due abbiamo imparato, poco per volta e a nostre spese, che si può riuscire a confrontarsi con qualcuno che la pensa in maniera del tutto diversa da noi. Lui mi ha anche aiutata a diventare più consapevole di me: io ero convinta di essere italiana al cento per cento, non mi rendevo conto di essere effettivamente un’immigrata e che gli adulti avevano scelto per me. Ha colmato quella metà vuota della mia identità, che cercavo di ignorare o che non conoscevo proprio. Da piccola mi vergognavo di parlare arabo per strada, poi ho capito che era una delle mie due lingue madri, e ho imparato ad apprezzare anche questa parte di me».
Nel graphic novel racconti che a scuola non andavi tanto bene e che questo dipendeva in gran parte dal rapporto con gli insegnanti, alcuni dei quali ti consigliavano addirittura di cambiare scuola. Ci spieghi meglio?
«Diciamo che i miei voti dipendevano dall’interesse dimostrato dagli insegnanti nei miei confronti, ma è una cosa abbastanza comune, non la vivevo solo io. Avevo più problemi con gli insegnanti che con i miei compagni di classe: il bullismo me lo facevo scivolare addosso, perché avevo comunque un bel caratterino, mentre il “bullismo” subito da parte degli insegnanti non lo sapevo affrontare, e se denunciavo la cosa non venivo creduta, venivo banalizzata da altri adulti, quindi tendevo spesso a cambiare scuola e a ricominciare tutto da capo. Ho cambiato tre scuole medie, tre scuole superiori. Tra l’altro non sono stata educata ad affrontare gli adulti e difendermi da loro: da piccola mi hanno sempre detto di rispettare le persone più grandi, ma quando è un adulto a non rispettare una persona giovanissima, come fai ad affrontarlo? Il lato positivo è che queste difficoltà mi hanno aiutato ad affrontare meglio quelle che ho trovato in seguito durante la crescita».
Racconti in particolare di un’insegnante femminista vecchio stampo, che quando ti vedeva arrivare a scuola indossando il velo ti diceva che eri una vittima e che dovevi ribellarti alla tua famiglia e alla tua religione. Era una forma di pregiudizio?
«Sono cresciuta vedendo rappresentare la donna musulmana con uno sguardo pieno di pregiudizi. Si ha la tendenza a descrivere una persona che subisce un qualsiasi tipo di discriminazione come una persona debole, incapace di cavarsela da sola, e che dev’essere salvata o difesa. In realtà io sono sempre stata molto determinata e poco influenzabile».
Tanto che, come dici nel libro, hai deciso da sola di indossare il velo, anzi all’inizio tuo padre era quasi contrario. Perché?
«Non era contrario, ma io avevo solo dodici anni e riteneva che fossi ancora poco consapevole. E poi c’era stato da poco l’11 settembre e temeva che potessi subire delle discriminazioni».
Che rapporto avevi da ragazzina con i tuoi genitori? Ti hanno lasciata libera di seguire la tua vocazione artistica oppure avrebbero voluto che facessi altre scelte?
«Mi hanno sempre appoggiato, fin dalle medie mi dicevano vai a fare il liceo artistico, e anche se in realtà ero quello che volevo anche io, ero di coccio e, tanto per decidere da sola, sono andata prima a fare il Chimico-biologico e poi ragioneria. Mio padre è tutto l’opposto dello stereotipo del papà arabo musulmano che i media continuano a raccontare, quello che decide per i figli e non permette loro di esprimersi. In tanti mi chiedono: ma tuo padre, che è un imam, accetta la tua indipendenza, il fatto che per lavoro giri da sola per il mondo? E io non posso fare altro che rispondere: ma veramente è lui che mi ha cresciuta così!»
Quando hai iniziato a scrivere storie a fumetti?
«La mia prima pubblicazione di un fumetto è stato in un libro di sociologia per l’università quando avevo quattordici anni. A scuola magari non avevo dei gran voti, però portavo avanti dei blog, e facevo tantissimo volontariato interculturale. Tutte cose di cui i miei insegnanti non sapevano niente, perché non si erano impegnati a conoscermi davvero».
“Il mio migliore amico è fascista” si chiude con un finale in sospeso: ci sarà un seguito? Magari una storia d’amore tra i due acerrimi ex nemici?
«È molto probabile che la storia continui con un secondo volume, dove torneranno tutti e due i protagonisti. Però niente spoiler: i lettori lo scopriranno da soli».
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