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A.C. 25 gennaio 2009
L’esercito comune europeo: utopia o realtà?
Durante la crisi tra Russia e Georgia, l’Europa è riuscita a ritagliarsi un importante ruolo politico-diplomatico in discontinuità con il passato
L’esercito comune europeo: utopia o realtà?

ALGHERO - Durante la crisi tra Russia e Georgia, l’Europa è riuscita a ritagliarsi un importante ruolo politico-diplomatico in discontinuità con il passato. Grazie all’energica azione di Sarkozy, presidente di turno dell’Unione Europea, ha ottenuto importanti risultati: il ritiro delle truppe russe dal territorio georgiano, il dispiegamento di una missione di polizia europea, una conferenza internazionale e l’impegno di Saakašvili, presidente della Georgia, a rispettare gli accordi di agosto sul cessate il fuoco. Nonostante l’indubbio successo, la strada che l’Europa deve compiere in campo politico e militare è ancora lungo ed impegnativo.

Nel 1957, anno di nascita dell’Europa, l’obiettivo primario dei suoi padri fondatori era la ricostruzione economica del continente e non si nutrivano ambizioni da politica di potenza. I tentativi compiuti in tal senso, dal piano Pleven alla Comunità Europea di Difesa, erano miseramente falliti. I leader europei decisero quindi di delegare la difesa del continente ad una nascente organizzazione regionale: la NATO (North Atlantic Treaty Organization), con cui dodici Paesi occidentali sottoscrivevano l’impegno di difendersi a vicenda, in caso di aggressione, e di collaborare in campo economico e sociale.

La garanzia della protezione americana non poteva indurre i leader europei, impegnati nel processo d’integrazione, ad elaborare un’Europa che fosse non solo economica ma anche politica e militare. Nel 1989, eventi di grande portata storica hanno cambiato profondamente lo scenario internazionale. Il crollo del Muro segnava la fine del mondo bipolare e la dissoluzione dell’URSS esauriva la major threat che aveva unito l’Europa occidentale agli Stati Uniti. Era ormai chiaro che l’Europa avrebbe dovuto pensare in modo autonomo alla propria sicurezza e colmare il divario esistente tra grandezza economica e il limitato peso politico.

Pressati dal rapido succedersi degli eventi (guerra jugoslava, riunificazione Germania), i leader europei si riunirono a di Maastricht ed elaborarono il Trattato sull’Unione Europea, il cui Titolo V avrebbe sancito la nascita della Politica estera e di sicurezza comune (PESC). Messa alla prova dalla sanguinosa guerra nel “cortile di casa” europeo, l’Europa si rivelò incapace di fermare il massacro nei Balcani. Gli strumenti elaborati a Maastricht non erano quindi sufficienti a produrre sicurezza e si cercarono nuovi mezzi. Il Consiglio europeo di Colonia (giugno 1999), tenutosi poche settimane dopo la conclusione della missione NATO in Kosovo, istituì la Politica europea di sicurezza e di difesa (PESD). Questo nuovo strumento è stato concepito allo scopo di permettere all’Europa di sviluppare una capacità decisionale autonoma e, ove non fosse impegnata la NATO nel suo complesso, a lanciare e condurre operazioni militari dirette dall’Unione Europea in risposta a crisi internazionali.

La PESD è divenuta operativa soltanto nel 2003 e, nel suo ambito, sono state compiute alcune missioni a carattere militare e/o civile in Congo, in Iraq, in Georgia, in Bosnia e in Macedonia. Nel contempo, il Consiglio europeo di Helsinki (dicembre 1999) definiva gli headline goals (obiettivi primari) da conseguire entro il 2010: la creazione di una forza militare (60mila effettivi) che potesse essere schierata entro 60 giorni e capace di rimanere sul campo per un anno a cui si aggiunse, nel 2004, la creazione dei Battlegroups (forze di reazione rapida).

Sebbene la PESC e la PESD possano essere considerati dei successi ottenuti dal Vecchio Continente, i problemi irrisolti sono molti e di difficile soluzione. In primo luogo, è sempre mancata – con la sola eccezione della recente crisi caucasica – una visione comune in politica estera. Le crisi degli ultimi 15 anni in Jugoslavia, Kosovo, Afghanistan e Iraq hanno visto i Paesi europei assumere posizioni diverse e talora contrastanti. Le divisioni più profonde sono state causate dalla crisi in Iraq su cui i Paesi europei si sono spaccati in due blocchi contrapposti: Russia, Francia e Germania contrarie all’intervento, il “Gruppo di Vilnius” (formato da dieci Stati candidati all’ingresso nella NATO) e altri otto Stati europei, tra cui l’Italia, favorevoli. In secondo luogo, manca la figura del Ministro degli Esteri dell’Unione Europea sebbene essa sia stata inserita nel Trattato di Lisbona. La nomina di J. Solana ad Alto Rappresentante per la PESC ha parzialmente risolto il problema.

Resta il fatto che un eventuale esercito comune europeo non potrà mai agire con efficacia se continueranno ad esistere visioni diverse in politica estera e se questa non sarà delegata a un Ministro degli Esteri dell’Unione. In terzo luogo, l’Europa, per poter produrre sicurezza, dovrebbe poter disporre di un elevato numero di uomini, armi e risorse di cui, allo stato attuale, non è fornita: molti Paesi europei hanno abolito il servizio di leva, alcuni sono Stati neutrali, altri sono privi di industrie per la difesa. Con queste premesse, la costruzione di un esercito comune appare problematica. Infine, il nodo principale resta quello dei rapporti con la NATO e con gli USA.

La linea della Nato è stata resa nota, per la prima volta, nel dicembre 1998. Pochi giorni dopo il vertice franco-britannico di Saint-Malo, in cui Blair e Chirac gettarono le basi per la nascita della PESD, Madeleine K. Albright, Segretario di Stato americano, pubblicava sul Financial Times un articolo dal titolo “The right balance will secure NATO’s future”, meglio noto come “formula delle tre D”: no decoupling (nessuna spaccatura), poiché la NATO è la sola espressione del legame transatlantico; no duplication (nessuna duplicazione), poiché le risorse difensive sono troppo scarse da permettere la pianificazione di missioni militari in sede NATO e in sede UE; no discrimination (nessuna discriminazione) nei confronti dei membri NATO che non sono membri dell’Unione Europea.

La fermezza della Casa Bianca nei confronti delle iniziative europee in materia di difesa, è stata ribadita nel novembre 1999 da Lord Robertson, Segretario Generale dell’Alleanza, in un discorso all’Assemblea Generale con la “formula delle tre I”: improvement, miglioramento delle capacità difensive dell’Europa; inclusiveness, inclusività e trasparenza per tutti i membri dell’Alleanza inclusi gli Stati non facenti parte dell’UE; indivisibility, indivisibilità del legame transatlantico. Inoltre, a complicare ulteriormente il quadro, si inserisce la divisione dei Paesi europei in atlantisti (Gran Bretagna) e non atlantisti (Francia). La nascita di un esercito comune europeo potrebbe essere percepito dagli USA come un atto di rottura, se non apertamente ostile, e come una violazione delle formule usate dalla Albright e da Lord Robertson.

Nonostante i problemi che ho cercato di portare all’attenzione, ritengo che la nascita di un esercito comune europeo sia la unica strada percorribile. In un sistema internazionale che, con ogni probabilità, muterà da unipolare a multipolare per l’Europa l’autonomia politica e militare diverrà cruciale. Come è avvenuto nella storia recente del nostro continente, a deciderne le sorti sarà, probabilmente, il corso degli eventi e non la decisione dei singoli leader. La sola speranza che abbiamo, a mio parere, è che emergano personalità in grado di leggere gli eventi e di elaborare una visione complessiva dell’Europa.
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