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Daria Chiappe 14 aprile 2015
Sul finale della Danza ciò che resta dei Cigni
Si conclude, davanti al pubblico plaudente del Teatro Comunale di Sassari, la dodicesima edizione della Stagione della Danza 2015, con una originale rilettura de “Il lago dei cigni”, che lascia sul palco solo le vesti e i ricordi del grande balletto classico
Sul finale della Danza ciò che resta dei Cigni

SASSARI – Braccia simili ad ali, corpi eretti e leggiadri, stormi di danzatrici in tutù bianco e scarpette da punta. Niente di tutto ciò rivive nella versione de “Il lago dei cigni, ovvero Il Canto” proposta da Fabrizio Monteverde, se non nella memoria. Sul palcoscenico del Teatro Comunale di Sassari infatti, sabato scorso, ballerini-attori nei panni di artisti anziani, ancora troppo giovani nell’anima però, per abbandonare i grandi ruoli interpretati nella vita.

Ecco quindi riversarsi sulla scena ricordi di anni floridi sottoforma di abiti: disparati, variopinti, testimonianza di personaggi attraversati e vissuti, ora privi di un corpo agile e vigoroso in grado di farli rivivere. Vesti accantonate, sparpagliate, gettate per aria, prima amate e poi odiate ma comunque ancora indossate da chi non si rassegna all’idea di essere giunto alla fine della propria carriera. Questo il dramma vissuto dagli artisti raccontato dal coreografo Monteverde che nella sua rilettura del balletto classico, “Il lago dei cigni” non diventa altro che un mondo rimpianto, un simbolo di perfezione raggiunta nella danza durante la giovinezza e perduta nel coso della vecchiaia.

Quattordici sul palcoscenico i danzatori del Balletto di Roma che con maschere rugose, parrucche grigie e abiti miseri hanno sperimentato a fatica la decadenza fisica, così come l’atmosfera malinconica e desolata che aleggia in quel luogo in cui di solito si vive di ricordi. Ricurvi e zoppicanti si sono dunque mossi nella scena, consentendo alla loro reale giovinezza di emergere solo a sprazzi e regalando così al pubblico momenti danzati di grande bellezza e complessità. In questo modo, in un’antitesi tra vecchia e giovinezza, realtà e ricordo, Fabrizio Monteverde ha potuto riallestire in maniera originale l’opera di Begičev e raccontare al contempo l’attaccamento dei ballerini ai propri ruoli e la confusione che spesso si crea tra artista e personaggio.

Il tutto traendo ispirazione da “Il Canto del Cigno” di Cechov, un testo dove appunto si narra di un attore anziano che, rimasto imprigionato nel teatro, racconta al suo amico dei ruoli interpretati nella vita, così da riempire la solitudine. Una storia triste, a tratti grottesca, narrata attraverso il linguaggio contemporaneo, nel pieno rispetto della musica di Čajkovskij. Una musica riempita talvolta con la danza di corpi, talvolta con la danza di braccia e mani: uniche parti ancora rispondenti a ritmi e fatiche non più sopportabili. Ed è proprio con questa immagine dell’arte compagna, che regala e ruba, premia e punisce, appaga e svuota, che si è conclusa, davanti ad un pubblico plaudente, la dodicesima edizione della Stagione della Danza 2015.

Nella foto: un momento dello spettacolo



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