Salvatore Marino
23 maggio 2013
L'opinione di Salvatore Marino
Giovanni Falcone, la mafia e la Sicilia
A ricordare e commemorare la figura di un magistrato come Giovanni Falcone si rischia spesso di cadere nella retorica. Allora cercherò di farlo cercando di spiegare brevemente a quale “razza” di siciliani apparteneva il magistrato ucciso ventuno anni fa e di come in questi anni sia profondamente cambiato il fenomeno mafioso. Si dice che ci sono due modi di essere siciliani: “quelli di mare aperto”, che scelgono di andare via e che fanno della sicilitudine una sorta di condizione personale, di marchio di fabbrica, che utilizzano per vivere altrove, per vivere una vita diversa, scegliendo di proiettarsi consapevolmente su un altro orizzonte. E poi ci sono i “siciliani di scoglio” tra i quali penso rientrasse Falcone. Sono quelli che hanno deciso di restare in Sicilia nonostante tutto. Come quando, negli anni ottanta, per un magistrato, un giornalista, un appartenente alle forze dell’ordine, un politico onesto, la stessa sopravvivenza era una scommessa. Lo possono testimoniare coloro che hanno vissuto in presa diretta cos’era diventata una città come Palermo, in tutto e per tutto simile ad una sorta di Beirut. Le mattanze di mafiosi nelle diverse guerre di mafia, l’uso del tritolo e delle autobombe, intere città militarizzate ad ogni angolo, l’attacco diretto al cuore dello stato.
Ma Giovanni Falcone apparteneva ad una particolare sottocategoria, quella che Pirandello riassumeva nelle tre corde vibranti dell’animo di alcuni siciliani: la seria, la civile e la pazza. Sulle prime due nulla da obiettare; il rigore morale dell’uomo e il suo stesso mestiere facevano si che gli appartenessero di diritto. Ma è la corda pazza quella che lo connotava maggiormente (come testimoniano alcune persone a lui molto vicine) e che si esplicitava nel gusto del paradosso, dell’eccentricità, del continuo ironizzare (anche sulla morte, come fanno divinamente alcuni siciliani). Del resto in Sicilia lo stesso impegno civile, che in altri luoghi del resto d’Italia è considerato normale, quando è spinto al limite diventa una “corda pazza”. Ecco Giovanni Falcone aveva caricata a molla la corda pazza. La pazzia di chi pensava, specialmente in quegli anni tragici, che il fenomeno mafioso non fosse invincibile. C’è stato un momento in quest’isola che la normalità, il senso del dovere, la resistenza al sopruso, il rifiuto di accettare le regole imposte dal più forte, fossero atti di straordinaria follia. Per il semplice motivo che spesso si poteva finire morti ammazzati. E così l’avevano Paolo Borsellino, Libero Grassi, Pippo Fava, Peppino Impastato, Mauro Rostagno e tanti altri.
E la corda pazza cos’è se non l’esasperazione di tutto ciò che è positivo in un uomo? E cioè dell’intelligenza, della genialità, del coraggio, dell’intransigenza, della tenacia, della generosità, del rispetto. Ritengo che sia stato, ad un certo momento, il forte condizionamento sociale, il consenso diffuso e la gratitudine esplicita di tanti siciliani verso alcune specifiche figure, a spingere uomini come Giovanni Falcone ad assumere il ruolo che gli altri si aspettavano da loro e che essi stessi quindi si sono convinti di dover assumere. E allora è così che lo si deve ricordare, da cittadino normale, da siciliano perbene, da uomo che non aspirava ad essere considerato un eroe o un martire. Come uno a cui vibravano tutte e tre le corde. Nel frattempo la mafia è cambiata. E’ andata in immersione e si è evoluta. Decapitata la mafia tradizionale, o per lo meno l’ala militare, si è fatta avanti quella che alcuni chiamano la mafia grigia. Il mutamento in atto non è quello di una organizzazione criminale che si mimetizza o che viene soppiantata da un’altra ma è quello, purtroppo reciproco, di una realtà economico-politica che si intride di mafia fino all’indistinguibilità tra le due realtà. Due poteri che oggi si abbracciano, si identificano, fino a trasformarsi, confondersi, fondersi in un’unica “cosa grigia”.
E’ il nuovo sistema di potere, la trasformazione della vecchia contiguità tra mafiosi da una parte e imprenditori, colletti bianchi e professionisti dall’altra. La cosa grigia si è mangiata la mafia che non esiste più come l’abbiamo immaginata: pizzini, coppole, capi mandamento, padrini e killer. Una cosa che ha una struttura a rete ed è governata da insospettabili professionisti e imprenditori. I quali non hanno bisogno di estorsioni, pizzo e traffici illeciti. Gli affari sono altri. Dall’eolico alle energie rinnovabili, alle grandi consulenze, ai mega appalti. E’ di qualche settimana fa il sequestro di beni ad un imprenditore del settore eolico di Trapani per circa 1,5 miliardi di euro (l’equivalente di una manovra finanziaria). Questa è la nuova mafia, che non spara un colpo, che è capace di investire quando è tempo di crisi, che ha un’immensa liquidità che ricicla in attività legali. E’ la nuova mafia che condiziona dall’interno le regole economiche, che muove i fili dell’economia legale anche dove meno se ne sospetta la presenza. Matteo Messina Denaro sarà catturato e con il suo arresto Cosa nostra, così come l’abbiamo conosciuta, sarà stata sconfitta definitivamente. Perché non ha un successore ed è il massimo rappresentante di un fenomeno criminale decadente che si basa sul controllo del territorio, sulle estorsioni e sul traffico di stupefacenti.
Gli altri, la nuova Cosa grigia, quelli che Giovanni Falcone chiamava le menti raffinatissime colluse con la mafia, si sono già portate avanti con gli affari e fanno ben altro. E tuttavia il nuovo rinascimento, la nuova primavera, a partire proprio da Palermo che è la capitale e la città simbolo della Sicilia, sta ritornando. L’Onu ha indicato il rinascimento di Palermo come modello e simbolo per la promozione della cultura della legalità nei cinque continenti. Se per anni la Sicilia ha esportato la malattia nel mondo oggi Palermo ne esporta la cura. A partire dai suoi cittadini che si sono sforzati di contrastare un fenomeno violento e incivile come la mafia senza diventare essi stessi incivili e violenti. Che hanno saputo apprezzare il conferimento della cittadinanza onoraria al Dalai Lama, ai Nobel per la pace Trimble e Hume e a tutti i condannati a morte di tutto il mondo, che hanno rivisto la riapertura del Teatro Massimo, che si sono riappropriati dell’immenso, bellissimo e finalmente (parzialmente) risanato centro storico più grande d’Europa. La Palermo che da anni produce cultura attraverso luoghi come i Cantieri culturali alla Zisa, grazie ai movimenti di cittadini, associazioni, artisti, operatori, che credono nella cultura come bene comune. Palermo che spero riuscirà ad essere, come sembra, capitale europea della cultura per il 2019.
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