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Natacha Lampis 2 novembre 2011
L'opinione di Natacha Lampis
Palloncini da scuola
Non ho chiuso quelle finestre
Palloncini da scuola. <i>Non ho chiuso quelle finestre</i>

Gentili amministratori, gentile cittadinanza,
con questa lettera aperta mi rivolgo a tutti voi per ragionare insieme sulla decisione presa dagli assessori Giancarlo Piras e Mario Conoci di denunciare la nostra scuola presso l’Ufficio Scolastico per aver strumentalizzato i nostri studenti in occasione dell’inaugurazione dei nuovi parcheggi della Piazza dei Mercati. Per iniziare vorrei parlare con voi dei bambini, di come reagiscono e di cosa pensano i bambini quando non gli va una cosa. Di norma, quando un bambino non è d’accordo con qualcosa che noi adulti gli proponiamo, usa una serie di strumenti che vanno dal capriccio, al pianto, fino ad arrivare talvolta anche al ricatto; in alternativa c’è chi prova con le armi della lusinga affettuosa o con il silenzio ad oltranza; oppure c’è chi usa la sordità, finge di non sentire e procede vento in poppa così come più gli aggrada, infischiandosene delle richieste dell’adulto.

Quasi sempre però alla fine, anche dopo un lungo braccio di ferro, il bambino obbedisce, per non mettere in crisi la sua relazione con l’adulto. Nel momento dell’obbedienza nei suoi occhi si legge però sempre la delusione, talvolta anche la rabbia, per essere costretti a fare qualcosa che non si desidera affatto fare, o al contrario per non aver potuto fare quello che con ogni centimetro della propria pelle e fibra del proprio essere si sarebbe fatto se si fosse stati liberi di farlo. Ecco io il giorno dell’inaugurazione mi son trovata in questa situazione. I bambini e le bambine delle mie classe sapevano – da me, dai loro genitori e dal passaparola tra bambini stessi – che quel giorno ci sarebbe stata l’inaugurazione dei parcheggi della Piazza dei Mercati. Sapevano che la maestra e i loro genitori avrebbero sventolato un palloncino colorato per ricordare una promessa non ancora mantenuta. Noi però in classe avremmo studiato; la protesta vera e propria l’avrebbero fatta solo gli adulti.

E infatti si è lavorato tanto quel giorno. Abbiamo scritto una storia, quella della strega Cornelia, e non è stato facile perché siamo in seconda e imparare a scrivere è dura e bisogna sempre creare un’atmosfera che spinga fuori la creatività e ripaghi della fatica. Al suono della campana è stato naturale affacciarsi - la nostra classe dà proprio sulla Piazza - per vedere cosa succedeva di sotto. Avevamo resistito per tutta la mattina, anche se i rumori e le voci ci arrivavano chiari. Questa è ormai una faccenda anche nostra, ce la sentiamo addosso, la respiriamo quasi. Ci siamo precipitati alle finestre, senza neanche pensare alla merenda e al bagno. Poi alcuni di noi, dopo aver registrato gli eventi e dato finalmente forma alle sensazioni, hanno lasciato le finestre per dedicarsi al gioco nei corridoi o in classe. Altri invece non hanno voluto staccarsi dalle finestre. E allora: “Maestra, dai anche a noi un palloncino!”.

Io glielo do il palloncino. Perché non devo? È il gesto attraverso il quale vogliono dire che anche loro ci sono. E poi parte il coro: “Vogliamo la palestra! Vogliamo la palestra!”. Così, a ripetizione. Io sono in imbarazzo. Non so che fare. Gli chiedo: “Per favore bambini, non urlate! Non c’è bisogno! Basta il palloncino per far capire come la pensate”. Ma loro non vogliono. Non mi stanno neanche a sentire. Ci riprovo, cerco di portarli via dalle finestre, ma niente. Certo sono la loro insegnante, potrei ottenere ciò che voglio ab imperio, d’autorità come faccio in altre circostanze, quando non si rispettano le regole del gruppo, o quando non si dà il massimo durante un’attività. Se glielo avessi imposto, loro avrebbero obbedito, per non mancarmi di rispetto e per non deludermi. Ma non riesco a farlo. E allora decido di smettere io, e di non chiederlo a loro.

Perché l’ho fatto? Perché non ho voluto barattare la mia tranquillità personale con un’obbedienza che avrebbe avuto come prezzo la censura della loro opinione. Chiudere le finestre avrebbe significato togliergli la parola e rinnegare gli impegni che dentro la nostra scuola ci siamo presi nei loro confronti. Da tempo ci siamo dati obiettivi di pratiche di cittadinanza attiva da parte dei nostri bambini. Da tempo abbiamo dichiarato di volere riconoscere ai bambini, fin dalla nascita, lo stato giuridico di cittadini a pieno titolo; il che significa che non intendiamo più parlare di “futuri cittadini” o mantenere il tradizionale atteggiamento, così comune negli adulti, di considerare importanti i bambini per gli adulti che saranno e non per i cittadini - pur piccoli - che sono oggi. Decidere questo significa riconoscere le loro esigenze, le loro competenze, la loro dignità.

Dare la parola ai bambini non significa far loro domande e far rispondere chi alza per primo la mano. In questo modo si raccolgono solo luoghi comuni e stereotipi. Dare la parola ai bambini non significa che essi debbano esprimersi solo quando lo desideriamo noi, o quando noi riteniamo che sia il momento giusto o la situazione giusta. Dare la parola ai bambini significa metterli nelle condizioni di esprimersi, e correre il rischio di sentire anche cose sbagliate o cose che non ci piacciono. Ma per esprimersi i bambini devono poter ragionare su cose che fanno parte della loro vita, su cose che loro conoscono. È quasi inutile chiedergli di esprimersi su vicende e aspetti che riguardano persone e luoghi lontani da loro. È necessario, se si vuole davvero arrivare a costruire cittadini responsabili, attivi e partecipi, proporre esercizi di cittadinanza che siano realmente autentici. E cosa c’è di più autentico che ragionare su quello che ci sta intorno: il quartiere, la città, gli spazi di gioco, il modo in cui ci muoviamo, uno spazio che prima era pubblico e che ora non lo è più. | GIANCARLO PIRAS | MARIO CONOCI | LA PROTESTA
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